Mercoledì 23 febbraio 2011
Tratti di memoria e di famiglia: una riflessione sul Cinema Privato come stimolo
ad auto-organizzare un proprio percorso di memoria audiovisiva.
Il corso si propone esplicitamente un duplice obiettivo:
- coinvolgervi in una riflessione su quella forma audiovisiva che ho voluto individuare con il termine di “Cinema Privato”. (Apro una parentesi: ho parlato a buona ragione di forma, che attiene alle qualità linguistico-espressive della narrazione, piuttosto che di genere, che allude alla ricorrenza nella narrazione stessa di elementi prevedibili.)
- suggerirvi l’opportunità, o se preferite stimolare m voi la curiosità, di tentare il racconto ( in prima persona ed in forma audiovisiva) di un periodo circoscritto della vostra esistenza o della vostra esperienza. Che consenta a ciascuno di voi di riconoscere i modi in cui la vostra memoria ha sedimentato il vostro vissuto degli individui e dei fatti. Prima ancora d’immaginare questa traccia audiovisiva disponibile per chi, in un futuro prossimo o remoto, potrebbe considerarla quantomeno interessante, coinvolgente se non addirittura preziosa.
Consentitemi una:
Minima prolusione sulla memoria
(giustificando l’uso accademicamente ironico del termine prolusione per la sua valenza etimologica: pro, avanti e ludus, gioco letteralmente esercizi innanzi al gioco, oggi si parlerebbe di riscaldamento pre-partita. Un modo per suggerire l’idea che al nostro argomento sia opportuno avvicinarsi dopo un breve esercizio di riflessione sulla funzione della memoria)
Possibile che qualcuno dei presenti un certo interesse a salvaguardare tratti di memorie personali c/o familiari già lo avverta.
Tutti più o meno siamo consapevoli del ruolo essenziale che svolge la memoria (individuale, familiare e collettiva) nel fornire un senso (o piuttosto nella ricerca di un senso) all’esistenza. Perché da sempre alla classica questione del chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo non potremmo azzardare alcuna risposta che non implichi un qualche ricorso alla memoria.
Ed inoltre noi stessi siamo memoria.
Da tempo, in una certa misura da sempre, sappiamo di essere -geneticamente parlando- traccia vivente di una molteplicità d’ impronte: una specie di riassunto (riuscito o meno poco importa), di sintesi, o se preferite, d’inedita combinazione delle generazioni che ci hanno preceduto.
In quanto organismi viventi siamo progettati per la custodia e la trasmissione di informazioni. Esistiamo, in altre parole, in quanto memoria di chi ci ha preceduto e per trasferire memoria a chi ci seguirà. (Il gene egoista è un saggio del biologo inglese Richard Dawkins pubblicato nel 1976)
Ognuno di noi è nella sua essenza memoria in un flusso di memorie.
E tuttavia, per assurdo, oggi iniziamo ad avvertire un deficit di memoria. Finiamo per constatare, chi in maniera più consapevole, chi in modo più intuitivo, che il nostro rapporto con gli eventi passati non ha più quello smalto, quella vividezza, quella presenza, oserei dire quella fisicità che si manifestava per esempio nella maggior parte dei nostri genitori, per non parlare dei nostri nonni.
Non è questione d’età, né d’integrità fisica.
Il morbo di Alzheimer la cui crescente diffusione ciascuno giustamente paventa non ha alcuna responsabilità a riguardo.
Piuttosto è come se la nostra società (ma temo che la riflessione finisca con l’abbracciare l’umanità intera) a partire dalla seconda metà del ‘900 avesse iniziato a manifestare i segni di un contagio collettivo d’Alzheimer, attenuando, rendendo sempre più labili, progressivamente cancellando parti significative di memoria. L’evidenza del fenomeno ritengo faccia parte della comune esperienza di ciascuno, ma m ogni caso possiamo desumerla anche dalla semplice presa d’atto dei profondi mutamenti antropologici che ci coinvolgono.
Mi conforta che altri, ben più autorevoli di me, avvertano e denuncino lo stesso problema. Tullio Gregory, noto filosofo, in un fondo del 5 gennaio scorso sul Corriere della Sera dal titolo e sottotitolo eloquenti, “La scomparsa della memoria: difendiamo la memoria per non perdere l’identità”,prendendo le mosse dal messaggio di fine d’anno del Presidente Napolitano scrive: ” Il richiamo alla memoria, al suo valore non solo conoscitivo, ma etico e civile, è fondamentale. Purtroppo, nel panorama attuale, non è solo la memoria storica, diremmo collettiva, che rischia di venir meno: anche la memoria come facoltà individuale di ricordare, di costruire la propria cultura, la propria identità, si è venuta perdendo. ” E aggiunge: ” Dimenticando che sapere è ricordare, si è rinunciato non solo a tutto un patrimonio di riferimenti” ” fondamentali che hanno accompagnato la storia dell’umanità e la formazione stessa dell’identità italiana e che sono — o dovrebbero essere — una componente essenziale dell’esperienza culturale e civile di ognuno”
ma che “….si è perduto anche quello che può costituire una ricchezza di cui nessuno ci può espropriare, il rifugio ultimo della nostra vita quotidiana, l’estrema via d’uscita dalle situazioni più disperate. ” [riferimento a Primo Levi]
Del tutto d’accordo sull’individuazione del fenemeno, mi pare meno convincente attribuirne principalmente la responsabilità, come fa Gregory, al lassismo educativo post-sessantottino, alla rinuncia dell’imposizione ai giovani di mandare a memoria interi brani di prosa e di poesia.
L’origine del problema mi pare vada ricercata in un quadro di maggiore complessità.
Parto con un’esemplificazione tratta da una privatissima esperienza, che, pur non avendo alcuna presunzione d’universalità (e quindi nello specifico prestarsi alla legittima obiezione di una parte dei presenti), tuttavia ritengo in qualche modo paradigmatica perché concreta e magari condivisa da una parte di voi.
Qualche anno fa, come nel naturale svolgersi delle cose, i miei genitori sono morti. Tra gli scaffali di casa ho rinvenuto alcuni album fotografici. I più vecchi contenevano immagini di fine’800 e dei primi decenni del’900. Mi sono tornate alla mente le occasioni in cui, da piccolo, avevo guardato a quelle stesse immagini commentate dalla voce di mia madre che riconosceva puntualmente luoghi e volti. Che illustrava complesse relazioni parentali. Che riportando episodi di vita reali o immaginari (ogni famiglia produce una sua specifica mitologia e anche una sua specifica deformazione degli eventi), sottraeva quelle stesse figure ritratte al rigor mortis dell’istantanea per restituire loro qualche sprazzo di vitalità e di colore. Con il risultato, forse involontario ma certo stupefacente, di resuscitarle all’attualità dell’esperienza e del quotidiano vissuto familiare. “Non dire bugie, se non vuoi fare la fine dello zio Pon Pon! “,ogni tanto minacciava qualche parente. Che poi l’avo, mendace per antonomasia, non era zio vero, ma lontano prozio, mai conosciuto se non, giusto, attraverso una vecchia foto.
Oggi per me, per i miei figli quei vecchi album sono sostanzialmente muti. Domani, è probabile, perderanno ogni benché minima significanza.
Questa è la realtà problematica, ed allo stesso tempo il paradosso, che i nostri tempi propongono. Alla rivoluzione meccanica e informatica che nel secolo scorso ha consentito progressi straordinari nella qualità e quantità di conservazione di dati, fa riscontro l’affievolirsi di alcune aree della memoria personale. E questo non per un declino di prestazioni cerebrali, per il fiaccarsi di una funzione meno sollecitata. Tutt’altro.
Gli imput da memorizzare che quotidianamente ci raggiungono sono cresciuti nel corso di alcuni decenni in progressione geometrica. Siamo a tal punto assediati dalle informazioni che, dalla seconda metà dell’ 800, si è resa necessaria una specifica tecnica, quella pubblicitaria, per evidenziare nel flusso comunicativo specifici messaggi.
L’eccesso d’informazione, cui siamo sottoposti, obbliga le risorse non inesauribili della nostra memoria a lungo termine ad una selezione drastica.
Se questo è il paradosso (dimentichiamo più facilmente perché abbiamo un eccesso di cose da ricordare) il nodo del problema risulta piuttosto conseguente alla domanda:
quali criteri selettivi sovrintendono alla memoria persistente? Chi stabilisce le gerarchie di priorità in base alle quali un ricordo viene conservato in un’area di rapido e duraturo accesso, o viceversa stoccata in meandri più reconditi e magari più labili? Un processo in cui l’istinto naturale la fa da padrone o la cultura riveste in ciò un ruolo non secondario?
Non voglio, né potrei con le mie scarse competenze in materia, affrontare la questione sotto il profilo neurofisiologico.
A me interessa solo, con riferimento alla vicenda autobiografica degli album di vecchie foto, rilevare un trend culturale che tende ad attribuire meno interesse (forse anche meno valore) alle memorie familiari. Destinate, queste, a smarrirsi, sostanzialmente, anche nel breve arco di una generazione: i giovani sanno qualcosa dei genitori, un po’ meno dei nonni e poi basta.
Non è sempre stato così, lo sappiamo. Anche nella nostra civiltà, per considerare solo quello che più direttamente ci riguarda, il rapporto con gli antenati è sempre risultato centrale: nei grandi libri fondanti (la Bibbia, i poemi omerici) l’evolversi della stirpe è il motore primo delle vicende. Gli eroi omerici si definiscono spesso per la loro genealogia che li rende, a prescindere dalla loro volontà, protagonisti di un qualche destino tragico o di una qualche fatale missione. Quale spessore avrebbero una volta privati delle loro ascendenze? E’ un caso che il temine stesso di stirpe, che in latino indica l’albero ma anche le sue radici, nella sua etimologia indoeuropea, sanscrita, greca alluda alla solidità, alla saldezza alla compattezza?
Ebbene proprio in questo, per riprendere il filo del nostro discorso, consiste essenzialmente una delle principali funzioni della memoria: consolidare, rafforzare, radicare un individuo nello spazio e nel tempo. In altri termini ancorarlo all’esistenza munito di una solida identità.
Perciò, pur senza eccessivi allarmismi, guardiamo con qualche apprensione a quei segni che ci parlano di un progressivo allontanarsi dell’individuo dalle esperienze e dalle memorie familiari. I nostri, appaiono tempi che privilegiano una memoria orizzontale, tutta tesa a raccogliere gli incalzanti stimoli della contemporaneità piuttosto che una memoria verticale, di spessore, che affonda le sue radici in un passato anche remoto e crea i presupposti per proiettarsi nel tempo a venire. Le conseguenze di questa deriva, di questa propensione potrebbero rivelarsi infatti non così insignificanti. Potrebbero alla lunga compromettere le fondamenta dell’identità individuale, rendere l’individuo sempre più fragile, sempre più omologato, sempre più esposto a quelle patologie psicologiche che trovano terreno fertile, che dilagano nell’insicurezza, nell’assenza di riferimenti certi o di un qualche solido ancoraggio.
Volendo, alcuni segnali si possono già scorgere. Penso che specifici indizi possano risultare controversi (aumento crisi di panico, adesione a confessioni religiose settarie o non tradizionali etc) ma non la constatazione che in senso ampio l’identità individuale oggi vada incontro a crisi più profonde che non in passato.
Torniamo al cuore della nostra riflessione: perché la nostra società manifesta meno interesse, meno considerazione alla conservazione delle memorie familiari?
Ho accennato in precedenza alla seconda metà del 900 come riferimento temporale del primo manifestarsi del fenomeno. Non è un’indicazione casuale, quantomeno per noi occidentali ed europei: penso che ci sia stretta correlazione tra questo evento e la profonda trasformazione dello stile di vita che proprio in quei decenni ha iniziato a compiersi.
I miei coetanei ne hanno, almeno in parte, diretta esperienza.
Mettiamo a confronto tre standard di vita familiare prendendo come riferimento tre diverse date: 1910, 1960 2010.
1910: genitori e figli, spesso numerosi, consumano insieme due pasti al giorno, gli
adulti parlano ed i bambini tendenzialmente ascoltano, i giorni festivi i diversi nuclei familiari si riuniscono, oggetto dei discorsi tra adulti in larga misura sono le storie familiari del presente ma anche del passato perché gli anziani godono di grande rispetto formale e rappresentano una risorsa d’esperienza significativa. Una parte delle storie avventurose di cui i bambini subiscono il fascino non deriva dai testi classici della letteratura ma da vicende in cui sono stati coinvolti parenti ed antenati: su questo si costruisce in una certa misura il loro immaginario e gli album fotografici dell’epoca finiscono per rappresentare un concentrato di storie, in parte illustrate.
1960: La famiglia media consuma ancora insieme due pasti al giorno (quando va bene e madre e padre hanno un lavoro compatibile) ma in molte case, ed in molti tinelli, è già presente uno schermo televisivo che rende muta la famiglia, all’inizio solo all’ora di cena e ben presto anche all’ora di pranzo. La mobilità conquistata da un numero sempre maggiore di persone dirada nei giorni festivi gli appuntamenti familiari allargati. Aumentano per i bambini gli stimoli editoriali (fumetti) ed audiovisivi (la TV dei Ragazzi, Carosello, le trasmissioni radiofoniche tipo “per voi giovani”), del giradischi un tempo a mobile per adulti s’impadronisce sempre di più l’adolescente.
Il tempo riservato all’ascolto (ripetuto) delle storia familiari si contrae notevolmente e comunque difficilmente esercita lo stesso fascino sulle giovani generazioni.
2010: La famiglia quando va bene si riunisce a cena. Spesso i ragazzi (ammesso che ce ne siano più d’uno) mangiano prima, ed i genitori poi: finalmente soli! Le riunioni coi parenti sono spesso relegate al Natale ed alla Pasqua. Comunque nelle occasioni conviviali delle famiglie spesso l’attenzione è concentrata sui ragazzi che (un tempo si sarebbe detto maleducatamente) fanno il bello ed il cattivo tempo. I racconti degli anziani della famiglia sono spesso mal tollerati, in primis dagli stessi figli che manifestano evidenti segni d’insofferenza sopratutto quando la narrazione non è inedita. I nipotini poi, pur apprezzando la presenza dei nonni, li preferiscono in veste di benevoli complici per il soddisfacimento dei propri desideri che non in veste di portatori di storie e di esperienze. Per quello hanno uno straordinario repertorio multimediale che basta e avanza ad occupare ogni angolo del loro immaginario: mettete insieme Tv analogiche e digitali, pay per view, consolle, Ipod e Ipad e Iphone, internet, DVD, quant’altro vi viene in mente e frullate il tutto….
Il raffronto, assolutamente privo di presupposti scientifici d’indagine, penso però che
possa rendere a sufficienza l’idea dei motivi, di alcuni motivi, che sottendono al declino della capacità di produrre e conservare memoria delle radici familiari.
Bisogna anche aggiungere che questo deficit è tuttavia avvertito da una parte della società.
Ne è spia il crescente interesse del pubblico nei confronti di un genere letterario il “memoir” che a partire dagli Stati Uniti sta riscuotendo attenzione ed interesse in tutto il mondo. Cos’è il memoir?
Un genere letterario molto simile all’autobiografia ma che, al contrario di questa, non viene scritto in un ordine cronologico esatto. Nel suo recentissimo “Scrivere il memoir-Come utilizzare i ricordi per scrivere di se stessi con autenticità ” l’autrice Claudia Masi sottolinea innanzitutto la differenza tra memoir e autobiografia, tra verità emotiva e verità fattuale.
Nel suo “Memoir di italiane d’america” Caterina Romeo chiarisce che “il memoir è il genere privilegiato per l’auto-narrazione e per dare voce ai soggetti marginali. A differenza dell’autobiografia, ormai standardizzata e riconoscibile, il memoir è meno definibile, anzi mette in discussione alcuni punti fermi dell’autobiografia tradizionale, come la continuità temporale e strutturale. Grazie ad esso una memoria storica prevalentemente ignorata dalla cultura dominante viene finalmente recuperata: mancando un inizio e una fine ben definiti, non essendo rispettato alcun ordine cronologico all’interno della narrazione, il genere si presta perfettamente ad una narrativa del ricordo, che è di per sé discontinuo e che pone l’attenzione su aspetti che a livello oggettivo potrebbero sembrare di scarsa importanza. “
Per quel che ci riguarda più da vicino l’Italia devo ricordare come da tempo, dal 1984, a Città della Pieve si è costituito un archivio nazionale che raccoglie diari, epistolari, memorie autobiografiche.
Molti dunque e non solo da oggi ritengono utile se non necessario trovare nuove modalità per raccogliere e salvaguardare le memorie private e familiari.
I film (preferirei piuttosto definirli “documenti audiovisivi”) che proietteremo da oggi in poi mi auguro possano contribuire ad ad offrirvi quelle suggestioni, in parte inedite ed in parte indispensabili, per entrare nel cuore di ciò che questo ciclo d’incontri si propone.
Sullo specifico del Cinema Privato rinviamo l’approfondimento alla prossima settimana, con il vantaggio di poter affrontare l’argomento con una maggiore consapevolezza dei materiali di cui si parla e di come questi possano configurarsi mi alcune possibili realizzazioni.
Natura e caratteri del Cinema Privato
In questo secondo appuntamento entriamo direttamente nel cuore dell’oggetto della nostra riflessione che ruota in qualche misura attorno alla definizione non per tutti così ovvia di Cinema Privato.
Cos’è dunque il Cinema Privato?
Vorrei innanzitutto rassicurarvi che non è una forma espressiva di mia invenzione, anche se è vero che della definizione e dell’approfondimento di questa modalità d’espressione audiovisiva, coadiuvato da un numero finora abbastanza limitato di “complici”, sono orgogliosamente responsabile.
Col termine, peraltro raramente utilizzato, di “Cinema Privato” fino ad oggi si sono sostanzialmente individuate quelle proposte cinematografiche che mettono in scena una narrazione fortemente caratterizzata dall’autobiografia dell’autore (“Le filmeur” (2004) di Alain Cavalier o “Le sorelle” (2006, poi “Sorelle mai” 2010) di Marco Bellocchio, tanto per esemplificare) oppure per riferirsi a quell’universo rappresentato dagli “home movies” talvolta utilizzati anche dal grande scherma o assunti agli onori delle cronache televisive mondiali come I’ 8mm di Mr. Abraham Zapruder il sarto ebreo che il 22 novembre 1963 a Dallas filmò l’assassinio di Kennedy. (Non prendo in considerazione ovviamente il riferimento, linguisticamente corretto ma estraneo al nostro campo d’interesse, delle salette di proiezione approntate nelle magioni private dei pochi o tanti ricchi sparsi nel mondo.) Non è entro questi limiti semantici che ci pare giusto confinare l’ambito del Cinema Privato.
Il Cp non è riducibile solo ad alcuni tratti contenutistici: l’argomento autobiografico, il filmino familiare.
Il CP rappresenta qualcosa di più ampio, più profondo, più significativo. Costituisce una tendenza espressiva coeva alla stessa nascita del cinema e profondamente iscritta nelle sue stesse radici, che ha attraversato in tante e diverse declinazioni l’intero secolo passato e che, oggi a mio avviso costituisce il fulcro della rivoluzione audiovisiva e (se vogliamo multimediale) già in atto.
Esaminiamo rapidamente questa tendenza e vediamo, per linee generali che in un secondo tempo approfondiremo, quali tratti la caratterizzano.
Alle origini del Cinema
Quando la indico radicata nelle origini del cinema mi riferisco ovviamente ai fratelli Lumiere che il 28 dicembre 1895 nel presentare al mondo la loro invenzione, il cinematografo, proiettano pellicole la cui durata si aggira sul minuto dai titoli: L’uscita dalle officine Lumière (La Sortie de fusine Lumière à Lyon) 1895, Il volteggio (La voltige) 1895, La pesca dei pesci rossi (La Péche aux poissons rouges) 1895, L’arrivo dei fotografa al congresso di Lione (L’arrivée des congressistes à Neville-sur-Saone) 1895, I maniscalchi (Les Forgerons) 1895, L’innaffiatore innaffiato (L’arroseur arrosè) 1895, La colazione del bimbo (Le Repas de bèbè) 1895, Il salto alla coperta (Le saut à la couverture) 1895, La Place des Cordeliers a Lione (La Place des Cordeliers àLyon) 1895, Il mare (Bagno in mare) (La mer (Baignade en mer)).
Pure “trance de vie “, il cui stesso titolo racconta la sostanza del “girato”: tutti eventi banalmente quotidiani, qualcuno di maggior curiosità sociale, qualcun altro congegnato apposta per muovere un sorriso. E tuttavia, ripeto, non è il contenuto – per certi aspetti così simile a quello dei tanti filmini familiari successivi- che rivela i tratti da Cinema Privato in queste proto-pellicole. (Meno ancora il ricondurne la specificità alla falsa contrapposizione che molti storici del cinema hanno sempre evidenziato tra l’opera dei Lumiere e quella di Melies, dove fin da subito si sarebbero originati i due generi per eccellenza: il documentario e la fiction. No. Il Cinema Privato non può ridursi a sottogenere minore) del cinema documentario
una radice più intima che rende questa prime immagini cinematografiche archetipiche di ciò che successivamente germoglierà nelle tante e, per certi spetti anche molto diverse, declinazioni del Cinema Privato: la felicità del libero filmare, di un filmare fine a se stesso, per esempio.
Che nei Lumiere e nel loro primo pubblico è innanzitutto (ed ovviamente) legata alla novità rappresentata dall’invenzione, al concretizzarsi della meraviglia del creare e del fruire di immagini animate.
Ma che allo stesso tempo riscatta dall’insignificanza anche la più umile quotidianità per il solo fatto di venire inquadrata e restituita sulla schermo. Come il semplice gesto di ritagliare un qualsiasi trafiletto di giornale basta a renderlo automaticamente significativo, quantomeno per la persona che lo ritaglia. Come lo sguardo di un fanciullo capace d’incantarsi su di un anonimo filo d’erba.
E che testimonia, implicitamente, di una modalità di rappresentazione iconografica del reale davvero nuova, non solo per il suo svolgersi nel tempo che la distingue dalla pittura e dalla fotografia, in grado di fissare l’istante e non il suo divenire, ma anche per la capacità da subito implicita nel cinema di accogliere insieme al previsto ed al prevedibile anche il sorprendente e perfino l’inatteso: insomma una tecnica ed un’arte, quella cinematografica, che può operare assecondando e insieme oltrepassando le intenzioni del suo autore.
Attraverso il 900
Ho accennato al fatto che questa tendenza, questa vena d’espressione cinematografica si sarebbe sviluppata nell’intero arco dello scorso secolo. Mi limito a segnalarvi in quali ambiti cinematografici possiamo riscontrare la presenza di una pluralità di tratti che ci rimandano ai caratteri costitutivi del Cinema Privato.
Abbiamo già indicato il territorio, davvero sterminato, degli “home movies”. Di questa parte significativa della produzione cinematografica mi preme solo sottoporre alla vostra attenzione due fondamentali elementi. Il primo è che fin da subito la nascente industria cinematografica comprende come il mercato di un uso privato della cinematografia sia altrettanto interessante quanto quello dello spettacolo cinematografico, tant’è che le prime pellicole e relativecineprese 16mm (che oggi si definirebbero consumer) cominciano a circolare già negli anni 20 ed il 9,5mm Pathé Baby. Nel 1932 viene lanciato dalla Kodak il formato 8mm, che rimase il più popolare fino al 1965 quando fu progressivamente sostituito dal super8, destinato a cedere il passo sul volgere del secolo agli strumenti di ripresa ed ai supporti analogici e poi digitali.
Il secondo dato certamente significativo deriva dalla constatazione che intorno
al 1970 solo un terz o dell’intera produzione Kodack era destinato al mercato della fiction mentre il 70% era utilizzato dal cinema. documentario ed amatoriale Questa dato dà una concreta misura dell’ampiezza del fenomeno “Home movies”.
A questo dobbiamo aggiungere la produzione certamente ampia su scala mondiale dei cosiddetti “cineamatori”, figure variamente organizzate che si distinguono dai cineasti familiari per uno spiccato interesse all’emulazione tecnica del cinema professionale, riuniti fino dagli anni trenta sotto varie sigle nel 1937 per l’expo di Parigi ebbe luogo la fondazione dell’UNICA (Unione internazionale del cinema amatoriale) a tutt’oggi presenti come in Italia la Fedic.
Infine dobbiamo considerare tutte quelle realizzazioni direttamente o indirettamente collegate all’universo dell’arte pittorica e delle avanguardie artistiche che si sono succedute nel corso del ‘900.Il futurismo (Manifesto della Cinematografia Futurista del 1916, Bragaglia), l’espressionismo (aliene, Il gabinetto del dottor Cali ari, 1919, Wegener, Der Golem,1920; Mumau, Nosferatu, 1922) , il cubismo (Leger, Ballet Meccanique, 1924), il dadaismo (René Clair, Entr’acte, 1924)), il surrealismo (Bunuel Un chien andalou 1929, Man RayLétoile de mer, 1928, Jean Cocteau, Le sang d’un poète, 1930). A questa produzione, radicata nel contesto dell’arte visiva dell’epoca, si affiancherà a partire dagli anni 40 soprattutto negli Stati Uniti una sperimentazione originata dalla pratica cinematografica stessa (Maya Deren, Meshes of the Afternoon, 1943; Kenneth Anger, Fireworks, 1947) e che sfocerà nella splendida stagione del Cinema Underground che occuperà la scena dell’avanguardia cinematografica internazionale negli anni 60 e 70 ed i cui più noti autori sono Jonas Mekas (recensore cinematografico dal 1958 di The Village Voice), Stan Brakhage Window Water Baby Moving, 1959 e l’eclettico nonché notissimo Andy Warhol con tutti i suoi film provocatorii.
Percorrendo questi rivoli importanti ma meno frequentati della Storia del Cinema siamo dunque arrivati, sia pure a volo d’uccello, ai giorni nostri.
A questo punto non mi resta che affrontare la questione della rivoluzione audiovisiva in atto, fenomeno a cui non tutti attribuiscono la giusta considerazione e che si pone in modo decisivo sia nei confronti del Cinema Privato in genere, sia alla specifica tematica della conservazione e della salvaguardia della memoria personale e familiare.
La rivoluzione audiovisiva del terzo millennio
In cosa consiste dunque questa rivoluzione?
Semplificando si può dire che è stata originata, a partire dall’ultimo decennio del 900, dal convergere degli strumenti di registrazione dell’immagine in movimento e del suono (cineprese, registratori, videocamere) con le nuove tecnologie digitali di ripresa e di editing. Cui si sono assommate le potenzialità di una diffusione capillare e gratuita dei materiali audiovisivi attraverso una rete -internet- che si va facendo sempre più pervasivi, congiuntamente alla facilità della loro acquisizione e conservazione su supporti di costo contenuto, ottima qualità e rapida consultazione.
Con una qualche forzatura, utile però a evidenziarne la straordinarietà, si potrebbe affermare che la scrittura audiovisiva sta vivendo, condensato in pochi decenni, un processo evolutivo analogo a quello che la parola scritta ha sviluppato nell’arco di secoli: dai geroglifici egizi alla geniale e democratica invenzione del barone Bic (la penna biro), se proprio vogliamo fissare due paletti emblematici.
Infatti oggi esprimersi e comunicare con immagini sonore, da privilegio riservato ad una cerchia limitata di potenti e competenti, è nei fatti divenuta opportumità virtualmente disponibile per chiunque.
E così, come l’alfabetizzazione di massa avviatasi nell’800 ha provocato una profonda trasformazione nella produzione e nella fruizione del medium letterario, analogamente questo mutamento avverà nell’ambitoaudiovisivo.
Non è una rivoluzione radicale: fin dalle origini tanti e diversi sono stati i percorsi di
scrittura che hanno attraversato grandi e piccoli schermi. Singoli soggetti, autori filmakers ed artisti hanno costantemente esplorato l’esplorabile audiovisivo dei propri tempi: tutti accomunati, lo stuolo dei cinefamiliari e degli autori “sperimentali”, dal rivolgersi ad un pubblico assai circoscritto.
La differenza, piccola ma significativa differenza, sta nei numeri e nei prevedibili esiti. La conquista dell’indipendenza produttiva ed espressiva per gli autori e il venir meno dei filtri alla fruizione si tradurrà in un proliferare di proposte anomale (nei modi, nei linguaggi, nei tempi) rispetto ai canoni tradizionali dell’audiovisivo commerciale e finirà per dar vita ad una platea ricettiva forse non di massa ma certamente ampia, in grado d’influenzare l’evoluzione dei gusti, delle abitudini, della cultura audiovisuale e di favorire la nascita di un nuovo fruitore/spettatore. Quantità non significa qualità, questo è certo. Anzi sotto questo profilo è fin troppo facile pronosticare un livellamento verso il basso dell’offerta complessiva. Tuttavia, come nelle discipline sportive, il crescere dei praticanti inevitabilmente porterà all’emergere di nuovi e molteplici talenti che introdurranno stili e modalità espressive inedite.
Perciò ci pare di estremo interesse seguire e accompagnare l’evoluzione di questo processo di rinnovamento, gravido di conseguenze, che matura ìn campo audiovisivo e che ci pare di cogliere come un prepotente irrompere ed affermarsi sulla scena di un nuovo soggetto: il “Cinema Privato”, appunto.
Caratteri del Cinema privato
In termini idealmente radicali siamo di fronte ad un’opera di Cinema Privato quando questa contempla tutti o una gran parte di questi caratteri:
- Nasce al di fuori delle strutture industriali di produzione dell’immagine. Trae origine esclusivamente dalla necessità documentario-espressiva di un autore e non da una qualsivoglia committenza, perciò non soggiace a condizionamenti o a vincoli esterni per quanto concerne durata, modalità produttive e post-produttive.
- Un’opera generalmente realizzata in solitario, in cui il filmaker porta avanti l’intero processo realizzativo, a cui può associarsi il contributo di qualche generoso amico.
- Propone allo spettatore un rapporto non biunivoco (schermo-platea) ma una interlocuzione triangolare (autore/immagini, schermo/spettatore, autore/spettatore), un po’ come la differenza tra leggere un saggio e invece ascoltare dalla viva voce dell’oratore gli stessi concetti, connotati però da elementi (simpatia, antipatia, fascino, entusiasmo, imbarazzo etc) che sulla carta non trapelano.
- Si dà come opera non necessariamente definitiva, ma virtualmente sempre aperta ad un “progress”, ad un livello ulteriore di elaborazione, all’accoglimento di varianti.
- Attinge, per il suo farsi, ad una vasta riserva di immagini esistenti, sia proprie che altrui, che possono ibridarsi ad altre appositamente realizzate. Che considera immagini e sonorità come un patrimonio culturale a cui liberamente attingere, senza vincoli e senza scrupoli di copyright.
- Si concepisce sostanzialmente “a posteriori”, senza presupporre un soggetto né tanto meno una sceneggiatura. Uno “slow food” dell’audiovisivo che, prima di utilizzarle, lascia decantare ed affinare le proprie immagini. Dà loro il tempo di sottrarsi alla banale riproduzione del reale per maturare significati altri.
- Si guadagna il suo status non “a priori” (come nel caso di tanto cinema e video d’artista per cui vale la nota citazione di Odin “l’arte è questione di nome proprio” o come accade al termine della catena produttiva commerciale da cui esce il film o il documentario o lo short pubblicitario o il videoclip etc) ma solo per la cifra estetica e la valenza culturale e linguistica raggiunta attraverso il processo di rielaborazione.
- Non insegue il mass-medium, tutt’al più mira al group-medium, per accontentarsi m ultima istanza anche del self-medium. Non necessita di un pubblico, si accontenta di uno spettatore.
- Si sottrae alla dicotomia fiction/not fiction perché estranea ad una competizione sul registro della verità sia essa presunta oggettiva (il documentario) che abilmente restituita (la fiction). L’ambito che le compete è il registro dell’autenticità, quello di una soggettività estrema di uno sguardo personale emozionato ed autentico che si fa documento e narrazione al tempo stesso.
- Un’opera audiovisiva che non ha più come riferimento privilegiato la sala cinematografica od il passaggio televisivo, ma che già oggi può venire fruito in modalità diffusa, dalla galleria d’arte agli schermi della sotterranea o dei centri commerciali, per esempio, ma che in un futuro assai prossimo potrebbe finire sui Kindle o sugli Ipad dando piena realizzazione in alcuni casi alla sua natura di Cinema da leggere.
Dunque sono questi i tratti principali che, variamente miscelati, definiscono l’appartenenza al Cinema Privato, unitamente alla diffusa vocazione ad affrontare questioni che coinvolgono la memoria, il passato, i ricordi, le relazioni intime, la dimensione personale, diaristica autobiografica e che inevitabilmente si riverberano sul versante tecnico del tournage e dell’editing e su scelte linguistiche non necessariamente convenzionali, talvolta perfino inedite o trasgressive.
Tuttavia, d’istinto, collocherei la quintessenza della natura del Cinema Privato nel contesto ampio ma non perciò generico di un Cinema di prossimità.
Dove la prossimità alla materia trattata è letteralmente geografica e topografica, ma pure certamente emotiva.
E’ la prossimità umana alle persone che ci sono particolarmente (e ambivalentemente) care: genitori, figli, parenti, amici, tutti coloro che rappresentano ai nostri occhi un modello di riferimento esistenziale, o artistico, o professionale.
E’ un rapporto di nuova e franca prossimità autore – spettatore (a differenza del cinema d’autore in senso stretto, in cui l’autore si nasconde dietro l’opera).
Ma è anche la prossimità ecologica al mondo naturale: i fiori dei nostri terrazzi, le piante del nostro giardino, gli animali domestici che abitano la nostra casa, o la nostra campagna, il nostro cielo, il nostro mare.
Una prossimità che si declina anche in termini economici, perché letteralmente: realizzare film di questa natura è davvero alla portata di tutte le tasche!
E sono tutte queste prossimità, considerate nel loro insieme, a fare del “cinema Privato” una straordinaria occasione per chi sente l’esigenza di esprimersi audiovisivamente, poco importa che il supporto sia chimico o digitale.
Perché se è vero che già tanti, in un passato più o meno recente, si sono avviati su questa strada lasciando preziose tracce del loro operare, è altrettanto vero che il progresso tecnologico pone oggi ciascuno di noi in condizione di poter agevolmente confrontarsi con la scrittura audiovisiva che appare, nell’attualità, uno dei modi più prossimi all’esigenza comunicative contemporanee.
La forma direi più istintiva per molti d’esprimersi, per i giovani soprattutto.
E attraverso cui registrare, per noi stessi e per gli altri, il nostro particolare modo di avvertire e di restituire il tempo che attraversiamo.